Bhopal: disastro da non dimenticare

Morto Warren Anderson, il distruttore di Bhopal

Chidanand Rajghatta*, Tommaso Sbriccoli*

L'uomo che portava la responsabilità di un disastro apocalittico, la notte fra il 2 e il 3 dicembre del 1984 un gas velenoso, l’ isocianato di metile, provoco  la più grande catastrofe  industriale del mondo che provocò la morte di migliaia di indiani, è  finalmente morto. 

http://www.greenpeace.it/bhopal/mostra.php

Immagini del disastro di Bhopal per non dimenticare

Si dice che sulla scrivania di Warren Anderson ci fosse un fermacarte col proverbio cinese “Un  leader è migliore quando la gente sa a malapena che esiste”. Dopo la tragedia di Bhopal che nel  dicembre 1984 ha ucciso tra 3.787 (conteggio ufficiale) e 15000 indiani (non ufficiale e ancora in  corso), Anderson ha fatto tutto il possibile per far dimenticare la sua esistenza, scomparendo dalla  scena pubblica e vivendo nascosto per quasi 30 anni, per sottrarsi ai deboli tentativi di Nuova Deli  di portarlo in giudizio, Tale era la sua ricerca di anonimato che anche se è morto quasi un mese fa (il 29 settembre), la  notizia è emersa solo dopo che il New York Times ha notato il suo necrologio in un piccolo giornale  del Connecticut. La famiglia non ha annunciato la morte, che ha dovuto essere confermata  attraverso i registri pubblici. Il giornale ha detto che Anderson, che aveva 92 anni, e sua moglie  Lillian, che gli sopravvive, hanno vissuto una vita tranquilla e senza pretese in una piccola  comunità privata, curando il loro giardino e facendo lunghe passeggiate negli anni  immediatamente dopo il disastro. 
Ogni anno in dicembre si ritiravano in un piccolo appartamento su un’isola, quando i media  cercavano di beccare Anderson - che si è ritirato nel 1986 - nell’anniversario del disastro. La coppia  aveva anche una casa antica a Bridgehampton, New York, dove i giornalisti che vi avevano messo  piede sono stati cacciati fuori. Negli ultimi anni, Lillian ha affermato che la memoria di suo marito  si stava spegnendo e non riusciva a parlare.

Anderson diede solo un’intervista al New York Times nei mesi successivi al disastro, quando fuggi  dall’India dopo un breve arresto (alcune fonti sostengono la complicità del governo dell’epoca nel  permettergli di uscire su cauzione e lasciare l’India). Al suo ritorno negli USA disse che avrebbe  evitato di portare sua moglie a mangiare fuori, perché “se lo avessero visto mentre per qualche  motivo rideva lo avrebbero trovato sconveniente”.

"Deve essere come quando qualcuno perde un figlio o una figlia," ha detto. "Ti svegli la mattina e  pensi, come è possibile ? E poi capisci che è successo, e che è qualcosa con cui dovrai combattere  per molto tempo.
Nessuno lo ha visto lottare, almeno pubblicamente. Il sentimento generale sui social media alla  notizia della sua morte è che dovrebbe marcire all'inferno dopo essere stato giudicato dal creatore. Circa il 75% dell’India di oggi non era ancora quando, in una nebbiosa mattina di dicembre, è  successa la tragedia di Bhopal, una cittadina conosciuta ai tempi per i suoi laghi incantevoli. Era  anche sede di una fabbrica di pesticidi della Union Carbide che, all'insaputa di molti, aveva in  stoccaggio molte sostanze tossiche prive di controllo.
La notte fra il 2 e il 3 dicembre un gas velenoso, l’ isocianato di metile, è uscito dall’impianto e si è  sparso per tutta la città, soprattutto nelle baraccopoli, uccidendo all’istante centinaia di persone.
Migliaia ne sarebbero morti alla fine, e più di 500.000, nel corso dei tre decenni successivi,  avrebbero sofferto per problemi di salute conseguenti alla fuga del gas, tra cui cancro ai polmoni  e ai reni e insufficienza epatica.
Anderson si recò a Bhopal quattro giorni dopo il disastro e fu immediatamente arrestato. Ma pagò  la cauzione in circostanze controverse, tra cui la collusione e il mancato controllo da parte del  governo statale e centrale, e volò fuori dell'India, per non tornare mai più. Nel 1989 la Union Carbide pagò 470 milioni dollari al governo indiano per la definizione del  contenzioso derivante dal disastro, ma la transazione fu vista come una svendita. Ricominciarono  gli sforzi per l’estradizione di Anderson, ma le successive amministrazioni nordamericane non  hanno mostrato alcun interesse a portare lui o la Union Carbide davanti alla giustizia.

*da Times of India - traduzione di Alessandra Cecchi


CORRISPONDENZA DA BHOPAL

Un reportage di Tommaso Sbriccoli, apparso un anno fa su http://illavorodebilita.wordpress.com/ (una prima versione di questa corrispondenza è apparsa su Giap nel corso del dibattito sul libro di Alberto Prunetti “Amianto. Una storia  operaia“)

Scrivo queste pagine dopo aver passato una  giornata a Bhopal a parlare con le “vittime” (parola che non mi piace, sinceramente, ma  che uso per ora in mancanza di altre più precise) della Union Carbide. Sono antropologo,  vivo in India da quasi un anno, in un piccolo villaggio del Madhya Pradesh. Ho preso  qualche giorno di “ferie” con la mia compagna, fotografa, per venire a Bhopal a cercare,  credo, parole, più di ogni altra cosa, e la loro matericità, la necessità di vederle incarnate  nei corpi di chi racconta, per “dar corpo” a una narrazione, per intravedere qualcosa oltre il  velo di ciò che già si sa.

Queste righe devono molto al libro di Alberto Prunetti, “Amianto”, che ho letto da poco e  che è rimasto sullo sfondo della mia coscienza per tutta la giornata trascorsa a Bhopal.

È un tentativo, qualcuno dirà maldestro, di spostare un momento lo sguardo per rimettere  a fuoco un oggetto sul quale abbiamo fissato la nostra attenzione troppo a lungo. Sono  appunti sconclusionati, impressioni buttate giù di getto, rabbia sotto forma di pelle d’oca  che si riversa grezza in parole per non trasformarsi in impotenza.

A Bhopal la morte è l’orizzonte. Mi si dirà: lo è per tutti, ovunque. Qui però, dove l’unico  punto in cui lo sguardo può correre libero è sui trecento metri di parco attorno alle  macerie della Union Carbide, l’orizzonte è la casa alla fine del proprio vicolo.
E quei trecento metri non si possono neanche percorrere liberamente, perché la polizia li  controlla con attenzione certosina, dal momento che la gente che circonda il perimetro  della fabbrica, quella più colpita dal MIC, il gas fatale, ci torna a rubare pezzi di ferro  coperti, guarda caso, d’amianto. Abbiamo sperimentato l’efficienza della polizia di  persona. “Arrestati” per una buona mezz’ora per aver provato a raggiungere lo scheletro  della UC, 350 rupie, 2 sigarette e il numero di telefono di un ministro dello stato ci hanno  aperto i cancelli della “cella”, e della fabbrica. Vivendo in India si imparano i trucchi del  mestiere, non poi tanto diversi da quelli del nostro paese...

Poi vieni a scoprire, per aggiungere danno a beffa (e danno a danno), che gli unici accessi  permessi all’interno del perimetro della UC sono quello al vecchio campo di cricket della  fabbrica – uno dei pochi a disposizione dei ragazzi in questa parte della città – e quello a  chi possiede qualche capra e viene qui a pascolarla. Qui, dove capre e bambini mangiano e  giocano, sono stati, solo una manciata di anni fa, riscontrati i più alti livelli di tossicità del  suolo e dell’acqua di tutta la zona: qui la terra è ancora velenosa, come quello che ci cresce  sopra.

Quindi, la morte è l’orizzonte, ed anche il sentiero.  La morte è orizzonte e sentiero perché qui  non si combatte per non morire, ma si combatte mentre si muore. Sono passati 28 anni  dall’incidente, ma la prima sensazione che mi ha attraversato i polsi stamattina è che la  tragedia è avvenuta ieri. Non c’è soluzione di continuità tra l’evento scatenante e il suo  “futuro”. Non ci sono genealogie da ricostruire con fatica, archivi da spolverare e su cui  rompersi la schiena per tirare fuori un senso. Qui il legame tra capitale, nocività e  precarizzazione dell’esistenza è così palese che non serve ragionarci troppo. L’assassino lo  si conosce bene fin dalla prima pagina, e non perché uno scrittore si è fatto il culo per anni  e, con mestiere, può presentarcelo al primo paragrafo. Il colpevole ti fissa dritto negli  occhi, impunito, con strafottenza, e tu non puoi non guardarlo, col sangue che ti sale alla  testa.

Quindi, l’unica cosa che si può fare è ascoltare le voci che si alzano, dapprima come  sussurri, da dietro le sue spalle. E allora ecco che dal fiato delle voci si solidificano poco alla  volta, come gocce che ghiacciano all’abbassarsi della temperatura, dei corpi. I corpi di chi  ha respirato il MIC, di chi ha bevuto l’acqua contaminata della zona, di chi è nato da questi  stessi corpi. I corpi parlano, e raccontano. E dicono che hanno mal di testa, e vomito, e che  per fare 500 metri devono fermarsi tre volte, e hanno fibrosi polmonari, disturbi  neurologici e tumori, che hanno i reni rovinati, o sette dita dei piedi e deformazioni di ogni  genere, le gambe doloranti, gli occhi che bruciano e che non vedono più, che gli hanno  tolto vene, che perdono i capelli, che hanno acidità continua e gli si gonfia il ventre. Tu ascolti questi corpi parlanti, pieni di cicatrici, e non capisci davvero cosa hai davanti, in  quale mondo sei finito. Un mondo in cui la malattia è la cifra stessa dell’esistenza, la  condizione di normalità. Quando poi parlano dell’incidente e di quello che è avvenuto  dopo, le storie sono, come molte narrazioni di persone che hanno avuto un trauma (o  attraversato grandi eventi collettivi), racconti del proprio racconto, di quella struttura  narrativa che negli anni, a forza di provare a raccontare ciò che è impossibile dire davvero  a parole, si è cristallizzata in una forma precisa, fatta non solo di parole, ma di pause, gesti,  sguardi. Eppure, sotto o oltre questa struttura “stereotipica”, questi corpi essi stessi campi  di battaglia, c’è qualcos’altro, come una forza strana che spinge queste storie di sofferenza  e ingiustizia verso il futuro: un futuro allo stesso tempo di redenzione e di dannazione.

Ecco il paradosso, qualcosa che, senza capirlo subito, ho trovato anche nel libro di Alberto  Prunetti. Qui, se vogliamo parlare di mitologemi, più che della morte del padre si parla  della morte dei figli. Della morte della capacità di generare o, piuttosto, di generare un  destino. Ecco. La chiusura dell’orizzonte, la prospettiva di combattere per ottenere  giustizia sapendo che essa non ci permetterà di non morire, e di non vedere i nostri figli  morire.

Amida Bi, un’operazione al cuore e il fiato grosso, batte palmo a palmo la città vecchia, va a  trovare vecchie compagne di lotta che non possono più alzarsi dal letto (nocività vuol dire  anche questo: coloro che colpisci non avranno le energie e tempo a sufficienza per  risponderti), e dice ad ognuna che combatterà fino a che morte non la separi dal corpo,  devastato dal gas. La gente a Bhopal combatte, e lo fa perché sa che è giusto farlo. E lotta  perché vuole vincere, ottenere giustizia, e medicine, e sostegno per sé e le proprie  famiglie. Allo stesso tempo, però, il futuro è un muro da scavalcare, e i propri figli avranno  anche loro il fiato grosso, e poco tempo ed energie per arrampicarsi.

Mia madre, insegnante elementare, dice sempre che se i bambini a cui insegni non fanno  parte di un tuo sogno di insegnante (sogno di un mondo migliore, di giustizia, di futuri  immaginati), allora ha poco senso insegnare. Qui, dove sognare vuol dire sperare di avere  un figlio sano e di non svegliarsi al mattino con un nuovo sintomo, il punto è proprio  questo: come immaginarsi un futuro di giustizia quando quella dannata è la prossima  generazione?

Ecco la forza terrificante di questo (neo)capitalismo devastante: ci fa credere di aver  appena ucciso i nostri avi, quando in realtà sta già seppellendo i nostri discendenti.

Ci sarebbe tanto altro da dire, e forse proverò a dirlo un’altra volta. Per il momento solo  una precisazione ancora: quando dico Bhopal, intendo la Bhopal vecchia che dalla ex Union  Carbide sale verso la stazione dei treni e quella dei pullman, e tocca circa 36  “circoscrizioni” colpite dal gas. La Bhopal nuova, quella è un’altra storia, di un capitalismo  “cosmopolita” che della strage della UC se ne fotte, quando addirittura non la nasconde.

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